S. Stefano PM – Storia

Una Chiesa importante, situata cioè presso un abitato popoloso ed attivo, a capo di una grande comunità di più località, una pieve – come si usava dire un tempo – tende a rivivere continuamente su se stessa, ampliandosi e rinnovando il suo aspetto, secondo esigenze della liturgia, del gusto artistico, delle necessità di rappresentanza, della migliore accessibilità per i fedeli. Questo è accaduto anche per la Chiesa plebana di Mariano Comense, nel corso di 1500 anni, a partire dalla sua probabile nascita durante il quinto secolo dopo Cristo, nel periodo quindi del Regno di Teodorico o dei suoi immediati successori.

Ne è testimonianza una cassettina-reliquiario, in bosso e lamine d’argento sbalzato, appartenente a quel periodo e trovata nel 1574 nell’altare che si trova nel battistero.

Mentre però il battistero si è trasformato, ma persistendo fino ad oggi almeno nella sua forma romanica, della fine del secolo XI o dell’inizio di quello successivo, la chiesa giunta fino a noi ha subito numerosi cambiamenti. Alcune delle sue grandi modifiche sono percorribili attraverso la lettura di vecchie piante e di documenti scritti; in particolare si sapeva che ai tempi di San Carlo aveva subito il mutamento della direzione: l’ingresso era stato aperto cioè sulla piazza attuale, dove prima si trovava l’abside con l’altare maggiore.

I RESTI DELLA CHIESA ROMANICA
I lavori posti in essere negli anni ‘60, scoperchiando il pavimento, hanno posto anche in rilievo schematicamente la pianta delle costruzioni precedenti, fino a risalire alla stessa epoca cui appartiene l’attuale battistero. È emersa la parte inferiore del perimetro orientale, con tre absidi in muratura, corrispondenti alle tre navate in cui era divisa la basilica: verso la fine del secolo XI quindi, l’intero complesso della plebana era stato ricostruito, probabilmente in seguito al grande rinnovamento della Chiesa sostenuto dal popolo della campagna milanese (il movimento dei “Patarini”) e condotto poi da Papa Urbano II, già monaco cluniacense; ma probabilmente anche come segno del nuovo sviluppo economico e politico della comunità, dato che iniziarono allora varie forme di solidarietà che sfociavano nella formazione dei Comuni, non solo nelle città, ma anche in molti centri mercantili della campagna.

I LIVELLI PIU’ RECENTI
Questi resti vecchi circa di 900 anni corrispondono di fatto alla prima notizia scritta che abbiamo sulla Chiesa; nel maggio 1068 sono ricordati due sacerdoti della Chiesa e pieve di S. Stefano situata “loco Mareliano”. Lo scavo ci ha mostrato i resti di un’altra successiva modifica, avvenuta in un momento imprecisabile, prima della metà del Cinquecento, facendo assumere alla Chiesa una pianta quasi quadrata, come si osserva in un disegno del 1570 circa. Le absidi romaniche erano state abbattute e si era formato un presbiterio rettilineo, pur con tre altari allo sfondo delle tre navate divise da quattro colonne di cui c’è qualche traccia; il livello più recente corrisponde invece alla conformazione attuale, realizzata a partire dal tempo di San Carlo per qualche decennio. Sotto il pavimento erano poste, secondo l’uso, vari sepolcri, posti vicino ai vani delle cappelle; alcuni appartenevano a famiglie signorili, con tanto di lapidi iscritte degli anni 1616 e 1617. Le tombe sono del tipo a camera in mattoni e con volta a botte. Tutte queste preziose testimonianze stratificate non sono state distrutte, ma restano sotto il pavimento solo occultate. Si è posto uno spessa coltre di sabbia e di ghiaia, prima di procedere alle altre operazioni di copertura, di modo che un giorno – se si potesse – tutto sia ancora recuperabile e di nuovo indagabile. Al di sopra è stato gettato il pavimento in grandi quadrotti di marmo di tonalità vicina a quella predominante nella decorazione dell’edificio.

LA CHIESA SECENTESCA
All’epoca di San Carlo appartengono l’inversione della direzione e l’avvio dell’ampliamento dell’edificio. La Chiesa prima si affacciava sopra uno spazio vuoto a prato e coltivo, verso la vecchia Roggia; il nuovo accesso, che guardava sulla contrada risalente da Seveso e Meda e sfociante poi sulla piazza principale del Borgo, corrispondeva meglio all’assetto urbanistico del paese in espansione e si incontrava col desiderio borromaico di una maggior funzionalità delle Chiese: anche il battistero venne presto provvisto di una porta con atrio ad oriente come la chiesa plebana. L’altra modifica riguarda l’ampliamento dell’edificio, pressoché tutto ricostruito, secondo un piano, il cui disegno ebbe l’approvazione dello stesso San Carlo nel 1583, per arrivare a un decoro proprio a una Chiesa capopieve. La conformazione prevista era circa quella che oggi conosciamo. Il laborioso intervento ebbe principio a partire dalla zona del presbiterio, fra 1589 e 1606, anche se la sistemazione decorativa dovette procedere per qualche tempo: infatti nel 1645 si provvide alla consacrazione dell’altare maggiore, oltre qualche altro laterale.

Il restauro ha ricondotto a una visione molto prossima all’originaria della , ricca di una fastosa decorazione a stucco, che non ha la funzione di dividere le superfici, ma diventa un monumentale capitolo a sé di arte scultorea. Non solo le figure a tutto tondo, che popolano di un mondo ultraterreno le volte, ma lo stesso cornicione è movimento di spazi, è scultura. Questi aspetti sono accentuati dalle quattro statue dei Padri della Chiesa latina, che hanno ripreso lo slancio, dopo la rimozione delle pesanti verniciature oleose; e forse contribuiva anche l’altare con ciborio ligneo ad ottagono e due statue dorate laterali con angeli, sostituito poi dall’ara settecentesca che vediamo.

I DIPINTI MURALI
Al primo tempo della ricostruzione borromaica appartenevano anche i medaglioni del coro e del presbiterio. Appartenevano, perchè le composizioni, attribuite a un pittore probabilmente napoletano, Carafa, erano state dipinte a tempera sopra un fondo gessoso e quindi poco adatto a resistere alle forti infiltrazioni d’acqua colate dal tetto. Le scene, raffiguranti la caduta della manna, la danza di Davide davanti all’Arca, Mosè con le tavole della legge, la gloria di Cristo e la Cena di Emmaus, dovevano essersi quindi deteriorate ben presto.
Il restauro procedendo nella pulitura per campioni, fissando anche le parti di colore che si sollevavano a scaglie dal loro supporto, si è visto che ben poco rimaneva dell’intervento originario; si è perciò preferito conservare l’ultima ridipintura che era abbastanza omogenea e seguiva comunque le forme dell’opera di Carafa, ritoccando con colori a tempera e con tecnica “a rigatino” le parti perdute: si è così ricostituita l’unità delle opere, mantenendo visibile l’integrazione. Anche nel presbiterio però non sono mancate sorprese, dato che – sotto strati di pittura – sono riemersi alcuni putti degli archivolti, il caldo ocra rosato del fregio.

I DIPINTI DEL SABATELLI
Alla metà del 1800, tutta la Chiesa e specialmente la navata centrale furon sottoposte a restauri, sorretti dal prevosto Carlo Romano, divenuto vescovo di Como: anzi, la volta centrale fu interamente abbattuta e ricostruita. Nel 1857 si diede avvio alla decorazione della volta, con una ricca trascrizione a monocromo dell’apparato plastico del presbiterio, colmo di fantasie simboliche. Luigi Sabatelli, figlio dell’omonimo pittore fiorentino, esponente del primo romanticismo lombardo, dipinse gli angeli degli archivolti e le medaglie della Gloria, del Martirio e della Predicazione di S. Stefano, quest’ultima insieme col pittore Martinoli nel 1860; e allo stesso gusto appartengono gli altri putti dei sottarchi delle navate laterali. Probabilmente i pittori si ispirarono alle figurazioni angeliche che già illustravano (ce lo ricorda una relazione del 1762) la precedente volta. Anche in questo caso il restauro ha ricondotto all’origine la straordinaria sinfonia e lucentezza del colore, deturpato da imbiancamenti o incrostazioni di sali, da depositi di polveri e fumi, da fessurazioni, da qualche ritocco degli anni Cinquanta, che aveva alterato l’aspetto cromatico delle tinte dei fondi e delle fasce. L’odierno restauro ha ripulito la superficie da polveri, imbiancamenti e ridipinture, con gommapane e con sostanze leggermente basiche diluite in acqua distillata, ha ricampito i fondi nelle parti mancanti del colore e intonato ad acquarello i punti perduti delle decorazioni e dei dipinti affrescati.

COMPOSIZIONI DELLE NAVATELLE
Il medesimo apporto restitutivo ha interessato anche altre belle superfici lavorate a stucco nelle navatelle laterali, e cioè le volte delle campate antistanti i quattro altari laterali. Di tre composizioni del Seicento, quella davanti la cappella del Crocefisso ha dimostrato che le specchiature contornate da angeli e elementi vegetali erano un tempo dipinte: là dove l’intonaco non era stato rifatto ma solo ricoperto di ridipinture, sono apparse delle scene dipinte a tempera, rapportabili al tema della Carità o del Suffragio dei defunti, cui era dedicata fino a metà Ottocento la adiacente cappella. Episodio singolare, ma indice delle molte modificazioni interne, è risultato la decorazione a sottili nervature della campata antistante l’altare della Pentecoste: un aggiornamento settecentesco in gusto barocchetto o “rocaille”.

LE NAVATE E LE CAPPELLE
Nello stesso modo sono state trattate tutte le superfici delle navate minori e delle cappelle, dove gli assaggi non hanno dato risultato di presenza di decorazioni antiche. D’altra parte i lavori del secolo scorso sono stati vasti, per l’apertura di finestroni e il rifacimento degli altari; sono poi le cappelle i vani più soggetti a essere imbiancati e contemporaneamente a deteriorarsi maggiormente. Qui sono state ripulite, fino a raggiungere lo strato originario, le poche decorazioni risalenti alla fine dell’Ottocento o ai primi decenni del nostro secolo; mentre le nuove tinteggiature hanno seguito i colori e i toni ritrovati appartenenti al momento di stesura dell’intonaco esistente.

LE TELE DEI MISTERI DEL ROSARIO
Nome altrettanto famoso emerge per le tele dei Misteri del Rosario, quello cioè dei Fiammenghini, attivi anche nella vicina Cantù. Le scene, solo 14 essendo perduta l’Assunzione di Maria, erano in antico poste a incorniciare un affresco e quindi una tela della Madonna, sostituita poi da una statua nel nuovo altare neoclassico di Elia Buzzi del 1828.

LA PALA DELLA PENTECOSTE
Il dipinto della Pentecoste apparteneva a una cappella, dove fin dal 1591 aveva sede un Consorzio dei Dodici Sacerdoti della Pieve, istituzione che intendeva rappresentare la riforma del clero. Il quadro subì varie vicissitudini ed interventi. Con l’ultimo restauro è stata restituita appieno la eleganza compositiva e la brillantezza del colore tipica di un’opera di concezione manierista.

GLI AFFRESCHI NEL PRESBITERIO
Sulle pareti del presbiterio ci sono gli affreschi di quattro sante: a destra S. Lucia di Siracusa, martire del IV secolo, S. Apollonia di Alessandria d’Egitto, vergine e martire del III secolo; a sinistra S. Cecilia di Roma, martire del III secolo, S. Agata di Catania, vergine e martire del III secolo, Al centro del catino dell’abside è rappresentata la «processione» che porta l’Arca dell’Alleanza nella città di Gerusalemme guidata da Davide che suona e danza davanti al suo Signore. Sulla destra del catino dell’abside è rappresentata la scena di Mosè che spezza le Tavole della Alleanza. Sulla sinistra del catino absidale è rappresentata la scena della raccolta della manna durante la marcia di Israele attraverso il deserto. Gli affreschi sul soffitto del presbiterio rappresentano in successione «l’ultima cena», «Emmaus», la «gloria della Chiesa». La gloria della Chiesa: vi campeggia la SS. Trinità rappresentata dal Padre, che ha il triangolo in testa; dal Figlio che tiene la croce; dallo Spirito Santo in forma di colomba. Alla sinistra del Padre vediamo il precursore Giovanni Battista, che sul suo bastone ha una striscia con la scritta: «Ecce agnus Dei»; S. Chiara, S. Carlo Borromeo. Alla destra di Gesù vediamo Maria, sua madre; S. Pietro, santi ed angeli festanti. Sugli affreschi ovoidali ai lati de «L’ultima cena» vediamo: a destra Davide che uccide il filisteo Golia; a sinistra la fuga del profeta Elia nel deserto confortato dall’angelo che gli porge una focaccia. Sugli affreschi ovoidali ai lati di «Emmaus» vediamo: a destra il serpente avvinghiato al palo, simbolo di salvezza nell’AT, a sinistra la Croce che ha, ai piedi, uva e spighe, simboli di salvezza nel NT.

IL CORO LIGNEO
II Coro Ligneo che risale al ‘600, se non è una produzione più tarda su forme seicentesche, doveva essere stato costruito con molta probabilità in loco da falegnami dell’epoca che avevano trasferito la loro bottega sul posto, dove arrivava anche il materiale. Nella sua struttura originaria doveva essere realizzato semplicemente in noce massello, solo gli apporti successivi ed occasionali erano stati eseguiti con legni meno pregiati come pioppo ed abete. È costituito da 15 stalli disposti a semicerchio, dai rispettivi inginocchiatoi, forse postumi alla struttura a muro, e da predellini contro gli inginocchiatoi. Sottostante al tutto vi era una pedana di circa trenta centimetri, composta da due gradini, ora ridotta della sua metà.

L’ORGANO

A metà dell’1800 i mutati gusti musicali ed il desiderio di un rinnovamento abbiano suggerito la scelta di un nuovo e più moderno organo rispetto a quello precedente del Prestinari, dotato di due tastiere e nuove possibilità espressive. I lavori vengono affidati a Giuseppe Bernasconi di Biumo Inferiore (Varese). Il progetto, presentato dal Bernasconi in data 13/08/1858, parla di un nuovo “grandioso organo in ordine di 16 piedi”. Il nuovo strumento ha due tastiere di 61 tasti, di cui una però limitata nell’estensione a 56 note effettive. Una tastiera comanda le canne del Grande Organo, mentre l’altra consente di suonare le canne dell’Organo Secondo “ad uso fisarmonica”, termine con cui veniva probabilmente indicato il crescendo e diminuendo prodotti per mezzo della cassa espressiva. È questa certamente una novità: per la prima volta uno strumento a due manuali e per la prima volta la possibilità di avere un suono più espressivo, effetto certamente accresciuto dalla presenza di registri imitanti i violini e di registri solisti ad ancia nel Secondo Organo. La pedaliera mantiene invece la limitata estensione caratteristica della maggior parte degli strumenti italiani coevi. Lo strumento viene completato nel 1859 Non è quindi azzardato pensare che l’organo della chiesa marianese sia uno dei più belli installati dal Bernasconi fino a quel momento. L’enfasi data fin dall’inizio del progetto (“nuovo grandioso organo”) del resto lascia intuire la grande aspettativa che circonda la nuova opera. È del 1893 il congresso di musica sacra e canto liturgico, tenutosi a Mariano Comense e sostenuto attivamente dall’intraprendente don Paolo Borroni, futuro Prevosto. Durante il congresso l’allora ventenne Lorenzo Perosi (musicista e sacerdote nato a Tortona. Studiò canto gregoriano a Montecassino e contrappunto classico a Ratisbona. Svolse la sua attività di maestro di cappella ad Imola, in S. Marco a Venezia e presso la Cappella Sistina a Roma. Compose varie opere corali e strumentali ed anche alcuni brani organistici. Enorme successo popolare riscossero i suoi Oratori) ha occasione di incontrare il musicista e musicologo Giovanni Tebaldini, che lo ricorda “[…]ancora vestito da magro borghese, intento al suo concerto sull’organo della Prepositurale …Infatti, quando egli salì sul vecchio organo della prepositurale di Mariano e cominciò a preludiare su temi gregoriani e proprii, provai come un’impressione di dolce trasporto. Risale al 1955 l’ultimo intervento sull’organo. Una targhetta apposta sopra le tastiere indica “De Rocchi Mario riparazione organi da chiesa e harmonium (Varese)”. Negli anni ’60 l’organo viene affiancato e poi sostituito da un altro più piccolo della ditta Mascioni e così l’antico strumento segue la sorte di altri importanti organi storici, abbandonati e dimenticati, ritenuti troppo complessi e costosi da riparare e ormai distanti dalle moderne esigenze culturali e religiose.